Ai piedi del monte, sul versante meridionale del Giura, la nebbia aveva inghiottito colore e corporeità dʼogni cosa, risparmiandone solo le ombre smorte, vaghe impronte come quelle che lasciano i quadri tolti dalle pareti. I fili del telefono, quasi impercettibili, su cui si erano radunate migliaia d’uccelli, a don Luigi ricordavano i pentagrammi di una lugubre partitura.
«Il DIES IRÆ», disse fra sé mentre ingobbito dalla fatica trascinava una valigia pesante verso la stazione: «ecco il DIES IRÆ.»
Era lʼultimo autunno degli anni Cinquanta, gli sgoccioli di un decennio che egli aveva iniziato con fiducia incrollabile, pieno di ferventi speranze, e che ora stava per concludersi in maniera così meschina.
Di lì a poche settimane anche gli operai si sarebbero radunati a centinaia e centinaia, come stavano facendo ora gli uccelli sui fili del telefono. Si sarebbero riuniti alla stazione, assiepati lungo i binari, appollaiati sulle panchine, infagottati, stanchi, malinconici, e anchʼessi, osservando un rito che si ripeteva di anno in anno, avrebbero affrontato il lungo viaggio verso sud per passarvi l’inverno e per poi tornare in primavera, poco prima degli uccelli.
Questa volta però gli operai, i suoi lavoratori, sarebbero partiti senza ricevere la sua benedizione — non senza la benedizione della Chiesa, certo, né tanto meno senza la benedizione divina, però senza la benedizione sua personale, senza la benedizione di quel don Luigi che nella Missione Cattolica era riuscito a costruire quanto la rendeva così diversa, encomiata dal Console, tanto apprezzata dai fedeli.
Non sarebbe stato presente, a differenza degli altri anni, a differenza di tre anni addietro, ad esempio, quando con quaranta di febbre riusciva a stento a reggere in mano l’aspersorio, eppure anche quella volta aveva cantato il VEXILLA REGIS, davanti al buffet di seconda classe della stazione, con tale ardore e con tale purezza nella voce da commuovere pure i protestanti che ascoltando osservavano sottecchi e incuriositi.
Lʼarcivescovo di Spoleto lo aveva sospeso dallʼincarico e convocato immediatamente al suo ufficio, e poiché don Luigi era consapevole della gravità della propria colpa, sapeva anche che solo un miracolo avrebbe mai potuto riportarlo lì a Olten, in quella tranquilla cittadina svizzera.
Quando il treno proveniente da Basilea diretto a Milano entrò in stazione, era lʼunico passeggero ad aspettare sul marciapiede. Giovanna, la sua perpetua, era partita due giorni addietro, aveva sgombrato il campo per cederlo alla nuova, alla domestica del suo supplente.
Macché supplente! Non si faceva illusioni lui — non supplente: successore!
«È il DIES IRÆ», pensò, «DIES IRÆ, DIES ILLA, SOLVET SÆCLUM IN FAVILLA, TESTE DAVID CUM SYBILLA. Il giorno dell’ira, quel giorno che dissolverà il mondo terreno in cenere come annunciato da Davide e dalla Sibilla. QUANTUS TREMOR EST FUTURUS, QUANDO IUDEX EST VENTURUS, CUNCTA STRICTE DISCUSSURUS! Quanto terrore verrà quando il giudice giungerà a giudicare severamente ogni cosa!»
In treno avrebbe abbozzato un discorso: nessuna apologia, soltanto una supplica di clemenza per lei, unʼintercessione a favore di Azzurra. Dopo la preghiera mattutina lʼansia per la propria sorte era quasi svanita, la trepidazione per Azzurra invece era cresciuta: che ne sarebbe stato di lei, se glielʼavessero portata via?
Trovò un compartimento libero tutto per sé, si sedette e cominciò: «Quel che vi è venuto all’orecchio, vostra Eccellenza, è la pura verità, sì, ma è soltanto una parte di essa, e se ora m’inginocchio umilmente davanti a voi, la mia intenzione non è quella di invocare clemenza, ma soltanto di soddisfare il mio desiderio che la verità la conosciate tutta.»
Prese un sorso di caffè dal termos e dovette constatare che il suo castigo era meno lontano di quanto non avesse sperato; anzi, già adesso gli stava piantando i suoi artigli nella carne. Lʼunico caffè che il suo stomaco era in grado di sopportare era quello che gli faceva Giovanna. Una schifezza come quella che gli aveva miscelato la perpetua del suo supplente — anzi, del suo successore — non lʼaveva più saggiata dalla fine della guerra.
«È proprio così», continuò, «tre mesi fa ho portato Azzurra, sprovvista di documenti, dalla Svizzera in Italia, a Spoleto, dalle Sorelle Pie Lucia Filippini. Lʼho fatta rimpatriare, per così dire, clandestinamente, mi sono servito di una menzogna e ho abusato della fiducia che un sacerdote incute, per ingannare le guardie confinarie e poter quindi varcare la frontiera. Raccontai loro che nessuno sapeva dove si fosse cacciato il padre della bambina e che io mi ero messo in viaggio per riportarla da sua madre.
E in un certo qual modo tali dichiarazioni non erano menzogne ma piuttosto metafore.
Di un padre che nessuno conosce come tale, di uno che con grande probabilità non sa nemmeno lui stesso di essere padre, logicamente non si può sapere neanche dove si sia cacciato; e la madre, vostra Eccellenza, … non è forse la Chiesa la Madre di noi tutti?
Comunque mi rendo conto che questa interpretazione non contribuirà a farmi perdonare.»
La pianura del Mittelland, ancora nebbia. E ovunque gli pareva di intravedere fili del telefono o alberi spogli, gli pareva anche di scorgere uccelli migratori che si radunavano. Ma forse si sbagliava.
«Azzurra nacque in una baraccopoli di operai italiani. Solo uomini: alcuni sono assai giovani, pochissimi gli anziani, in maggioranza sono scapoli, tutt’al più fidanzati. C’è fra di loro anche qualche sposato, qualcuno ha anche dei figli, ma le loro donne e i loro bambini non stanno lì, sono lontani: a casa, come dicono gli operai. Nessuno degli operai intende la baracca quando dice «a casa», anche se in essa vi ha passato la maggior parte della vita.
La madre di Azzurra, anche lei italiana, che lavorava come lavapiatti e come donna delle pulizie al ristorante ‹Zum Frohsinn›, che vuol dire ‹Allʼallegria›, non aveva un permesso né di lavoro né di soggiorno. Nelle baracche degli italiani lei andava e veniva assiduamente. Per motivi che, essendo stato io il suo confessore, non posso rivelare, in quella baraccopoli era più o meno di casa. Si era fatto un gran parlare di come fosse arrivata in Svizzera. Ma in tutte quelle storie che circolavano cʼera ben poco di attendibile.
Ad ogni modo, un bel giorno, anzi, un brutto giorno al ristorante ‹Zum Frohsinn› le dissero che non avevano più bisogno di lei. Si erano accorti che era incinta e pensarono che forse sarebbe stato meglio evitare grane con le autorità.»
Don Luigi girava e rigirava fra le mani la lettera dell’arcivescovo. Non avrebbe saputo dire quante volte ormai lʼaveva riletta sebbene la conoscesse a memoria parola per parola già fin dalla prima lettura, tanto era laconico e succinto il contenuto. Aveva continuato ad analizzare e scomporre il testo nei suoi atomi linguistici, quasi vi fosse ancora speranza che gli fosse sfuggita una parola o di averla mal interpretata.
Il Lago dei Quattro Cantoni, le prime montagne. Della coltre di nebbia ormai solo ultimi brandelli, fenduti da fiochi raggi di sole.
Don Luigi sorrise.
«Vi meravigliate del nome, Eccellenza? — Azzurra si chiama così perché è nata il giorno in cui la nostra Squadra Azzurra a Palermo sconfisse la Svizzera grazie a una segnatura di Pandolfini e una rete di Frignani — chiedo scusa per il termine — veramente eccellente.
Seguimmo la partita alla radio e poi al cinema vedemmo la sintesi e i momenti salienti nel cinegiornale: la prima rete la segnammo su rigore dopo soli tre minuti. Eravamo partiti bene. Si pensava che fosse una passeggiata, tutta in discesa. Invece gli svizzeri non mollavano. Cercavano il pareggio con grinta e correvano come se avessero un polmone in più. Lottavano fino a sputare lʼanima come fanno sempre quando giocano contro di noi e nonostante il vantaggio ora eravamo noi a soffrire. Però poi, al ventesimo del secondo tempo, da più di diciotto metri… Frignani aveva saltato tre difensori, sulla sinistra si era liberato Boniperti che chiedeva palla…, ma Frignani a sorpresa converse al centro, si allungò la sfera e di sinistro…
Chiedo scusa. Questo, per la verità, non cʼentra niente.
Per giunta allora di Azzurra non sapevo nemmeno che fosse nata.
La madre di Azzurra morì in una di quelle baracche. La piccola aveva meno di due anni.
Probabilmente si trattò di una polmonite. Nessuno aveva chiamato un medico. E anchʼio fui chiamato quando era ormai troppo tardi. La confessai, le impartii lʼestrema unzione.
In seguito i lavoratori mi raccontarono tutta la storia. Conobbi Azzurra che chiamava zio tutti gli uomini delle baracche e venni a sapere che la bambina non era mai stata segnalata, quindi mai registrata allʼanagrafe.
La battezzai.»
Neve. Ormai nebbia non ce nʼera più. Neanche uccelli. Solo montagne. Le montagne che di lì a poco gli uccelli avrebbero sorvolato.
Doveva essersi assopito un attimo. Ma riafferrò subito il filo del discorso.
«La battezzai.
Ma poi non sapevo più cosʼaltro fare.
I lavoratori si presero cura della bambina, lʼaccudivano, si davano il cambio quando prendevano servizio o smontavano il turno. Io leggevo le leggi e i decreti, in tedesco, con il vocabolario, e temevo che Azzurra sarebbe finita al orfanotrofio. I lavoratori si occupavano di lei, e lei cresceva, e io, io che lʼavevo battezzata, non sapevo che pesci prendere, e leggevo decreti in tedesco, col vocabolario, quando il linguaggio assurdo dei decreti non lo capisco manco in italiano.
Di una cosa soltanto ero certo: Azzurra in un orfanotrofio non sarebbe finita. Ci avrei pensato io a impedirlo. Ne ero certo. Solo che ancora non sapevo come avrei fatto.
Lʼidea che aspettavo non mi venne. Non sapevo più dove sbattere la testa. Così quando la bimba cominciò a correre dappertutto e a fare baccano, la portai con me, da me e da Giovanna.
Ogni giorno Giovanna con la bambina faceva delle passeggiate nei boschi o la portava a Basilea, a Zurigo o a Berna. Per un anno intero ho mangiato spaghetti aglio e olio con un poʼ di parmigiano o due uova al tegamino.
I vicini di casa però cominciavano a essere sospettosi. Quando incontravano Giovanna per strada o nella tromba delle scale le chiedevano di chi fosse quella bambina. E si faceva sempre più difficile trovare risposte persuasive senza mentire. — Cʼera poco da fare: Azzurra doveva tornare dove non era mai stata, almeno per il momento.»
Il treno si fermò. Un doganiere si affacciò nel compartimento, diede una furtiva occhiata ai bagagli, annuì e disse in tono ossequioso: «Buon viaggio, reverendo.» Ma Don Luigi esitò a benedire il giovanotto, quasi non gli fosse più permesso farlo.
«IUDEX ERGO CUM SEDEBIT…», sentì riecheggiare nella testa: «Dunque quando il giudice si siederà, QUIDQUID LATET, APPAREBIT, ogni cosa nascosta sarà svelata, NIL INULTUM REMANEBIT, niente rimarrà invendicato. In quel momento che potrò dire io, misero, chi chiamerò a difendermi, quando a malapena il giusto potrà dirsi al sicuro?»
La pianura: sterminata, spettrale. Giganteschi serpenti di nebbia strusciavano contorcendosi, pesanti come le anime di mostri enormi, trascinandosi sopra zolle fumanti, divorando qua e là una fattoria in lontananza. Gli unici uccelli lì erano corvi, e i corvi, benché non conoscano confini, non sono uccelli migratori.
Di mangiare non ne aveva voglia. Non voleva nemmeno dare unʼocchiata a quello che la ‹nuova› gli aveva preparato, e poiché non riuscì neanche ad addormentarsi si pentì di non essersi portato, per eccesso di penitenza, né grappa né tabacco,.
Gli sarebbe stato possibile un giorno concedersi di nuovo quei suoi innocui peccatucci veniali? Quanto grave era poi la sua colpa? Non era forse lecito per un cristiano, per un qualunque e comunissimo cattolico sperare nel perdono?
«Re di tremendo potere, tu che salvi per grazia chi è da salvare, salva me, fonte di pietà! SALVA ME, FONS PIETATIS.»
Scattò in piedi e prese a parlare ad alta voce — non curandosi di un viaggiatore che lanciava sguardi allibiti nello scompartimento — quasi stesse parlando ad unʼintera congregazione: «Vostra Eccellenza, che cosa può esserci di tanto difficile per lʼautorevolissima vostra arcidiocesi nel procurare alla bambina i documenti necessari? Subito! Immediatamente! Date a me e a Giovanna la tutela della minore, date alla creatura anche davanti alla legge terrena e umana quel sacro diritto che la legge divina già le ha conferito. Non ha un cognome? Bene. Allora propongo Di Stefano. Non lo dico perché è il mio cognome. È semplicemente un cognome assai frequente dalle nostre parti. Renderebbe tutto più semplice.
E poi unʼoccupazione per me… ci sarà unʼoccupazione, un lavoro che mi permetta di dar da mangiare alla bambina… che so: una biblioteca, un archivio, so fare un sacco di cose, conosco le lingue! Basta che non si parli di orfanotrofio! Lʼorfanotrofio… per lʼamor di Dio, quello no, vi supplico, Eccellenza, lʼorfanotrofio no!»
Don Luigi ammutolì all’improvviso. Si sedette e si asciugò il sudore dalla fronte con il polsino della camicia. Temeva che una tale confusione mentale e verbale difficilmente avrebbe potuto mitigare lʼarcivescovo di Spoleto.
Gli Appennini risplendevano nella luce dorata del tramonto, allorché il prete ricominciò tutto da capo, mettendoci questa volta tutto il suo acume, cercò le locuzioni e le riflessioni più incisive, vagliando e ponderando, perfezionando e adornando, facendosi trascinare dal proprio entusiasmo che infine gli regalò un gioiello di arte oratoria senza precedenti e paragoni. E compiuto che lʼebbe, raggiunse Spoleto a tarda ora, appena in tempo per essere ancora ricevuto dal prelato maggiore.
Affaticato, indebolito per il lungo viaggio, suonò il campanello del palazzo e un gentilissimo novizio accorse quasi subito ad aprirgli il portone e prendere valigia, cappotto e cappello. Gli fece strada fin nellʼatrio, poi, con gesto elegante gli indicò una scalinata e lo pregò di salire e di accomodarsi davanti allʼufficio dellʼarcivescovo.
Ora don Luigi si muoveva con incedere fiero, solenne nonostante la sua stanchezza, dal centro dellʼatrio illuminato verso la scalinata di marmo che portava al piano degli uffici e dei salotti, ormai quasi sommersi nel buio, data lʼora avanzata. Salì con passo regolare e deciso, scalino per scalino, isocrono come un pendolo, confidando sempre più fortemente nella propria eloquenza, irriducibilmente certo che nessuno mai avrebbe saputo confutare lʼacutezza della sua arringa, la bellezza e lo spirito profondamente cristiano delle sue dissertazioni.
Pensò a Frignani che con la seconda rete aveva chiuso quella memorabile partita di Palermo, e come quella volta sentì vicina la vittoria, il suo trionfo, la salvezza di Azzurra dallʼorfanotrofio.
Però, nel momento in cui si trovò di fronte allʼarcivescovo di Spoleto, aveva completamente dimenticato il suo discorso. Non ne ricordava più una sola parola.
«Lo sapevate, vostra Eccellenza», proferì invece, «che gli uccelli migratori, se nellʼimminenza del loro primo inverno non partono per svernare a sud, anche se riescono a sopravvivere, perdono lʼistinto migratorio e non ripartiranno mai più?»
Esplorò lʼespressione attonita dellʼalto prelato e disse fra sé: «Il DIES IRÆ, ecco il DIES IRÆ.»
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Che dire…i racconti del prof. Tuccillo sono un po’ come tavolozze da cui attingere i colori di una scrittura che si pennella di sfumature più che di colori decisi e forti e d’altronde, ciò è talvolta inevitabile se le parole affiorano tra onde di sentimenti . Probabilmente una visione, la mia, che niente rispecchia una autentica analisi di ciò che ho letto, perché alla fine per me, che siano forti e decisi, piuttosto che tenui e sfumati, rimangono colori : null’altro che lo specchio della nostra vita. Ed allora il bavero alzato di un cappotto , la cupa stanza di una famiglia raccolta alla propria dignità o il vicolo lercio colorato dal vocio di chi ci abita, sono immagini che di parole si colorano e là dove c’è ancora del bianco, l’emozione del lettore è il tocco finale perché quel racconto diventi il quadro che dal titolo fino all’ultimo punto, si firma di propria sensibilità. Ricordo tanti anni fa, ma tanti, quando ebbi l’onore di leggere in anteprima le bozze de “Il racconto del faro” , che l’impressione che mi fece e che condivisi con il suo meraviglioso autore, fu molto vicina a quella che oggi leggo nella nota della dr.ssa Silvia Brunelli : una matriosca di sensazioni, personaggi, apparizioni e scomparse, scambi di ruolo e vicissitudini che vorticosamente s’abbracciano per poi allontanarsi , come un messaggio mai apertamente espresso, quasi a demandare al lettore la riflessione finale. Insomma, come l’arte tutta, che sia pittura, scultura o scrittura, ognuno ne trae un momento di proprio pensiero, di critica, di piacere e perché no, di dissentimento anche, ma ciò che quell’arte ha già fatto , è l’aver rubato del tempo, un tempo piacevole se le parole, così come scritte in questi racconti, diventano il mezzo per andare lontano, per avvicinarsi alle descrizioni che con tali espressioni dondolano tra note reali e sprazzi di fantasia, e se pure una storia non piace, sarà stata solo una fermata : il viaggio di un nuovo scritto , già si prenota di nuove emozioni.
Bravo il mio Alberigo Albano Tuccillo!
Author
Così con questa meravigliosa poesia che mi hai scritto si invertono le parti: tu poeta (e ci sta pienamente), io pittore (e magari è troppo onore). — Ti ringrazio delle stupende parole!