La_figlia del signor Pantalone

La figlia del signor Pantalone

Alberigo Tuccillo Arte e cultura, Letteratura Lascia un commento

Decenni fa i ragazzi del corso d’italiano della Scuola di Diploma di Muttenz, un sobborgo di Basilea, rimasti affascinati dalle fotografie di alcune maschere della Commedia dell’arte che avevano visto su un loro libro di studio, cominciarono a interrogarmi su quali fossero le origini, la storia e le storie di quei personaggi suggestivi, quale significato avessero, come e per opera di chi fossero nati. Più cercavo di soddisfare la loro simpatica curiosità, più essi ne volevano sapere. 

Siccome le delucidazioni che lì per lì ero in grado di dare furono ben presto esaurite, mi procurai dei libri, e nelle settimane successive, durante le lezioni d’italiano, stentavamo a trovare gli spazi per osservare il programma scolastico e studiare anche un po’ di grammatica: quasi non si parlava d’altro che della Commedia dell’arte.

Ricordo che furono soprattutto i fratelli Califano, Giovanni (che si sarebbe poi cimentato come ottimo Arlecchino) e Toni (che avrebbe impersonato il Dottore) a non desistere: Già durante le prime lezioni durante le quali predominava l’argomento, si erano messi in testa di voler allestire e recitare poi in pubblico una commedia di maschere; e con la loro affabile e contagiosa ostinatezza riuscirono a ottenere da me quanto volevano.

Per dire la verità non fu molto difficile persuadermi, non tanto perché mi interessasse particolarmente il fatto in sé, ma perché non me la sarei mai sentita di deludere quell’entusiasmo sorprendente e confortante che purtroppo nei ragazzi di quegli anni ottanta e novanta mi sembrava essere una prerogativa piuttosto rara.

Ebbi l’idea per la trama, se così la si vuol chiamare, il giorno stesso in cui avevo finalmente promesso ai ragazzi che mi sarei dato da fare e che avrei scritto loro una commedia. Andai a casa e buttai giù di filato «La figlia del signor Pantalone». Non stetti ad elaborarla tanto, perché a mio avviso non si trattava di scrivere un’opera d’arte ma semplicemente di mettere insieme un testo base che permettesse ai ragazzi di fare le loro prime esperienze in una recita.

Non tardammo ad iniziare le prove. I ragazzi vollero farmi fare la parte di Pantalone e io li accontentai anche in questo. Tutti si impegnavano di gran lena: chi s’ingegnava a costruire le maschere, chi a cucire i costumi, chi a fabbricare lo scrittoio, l’alberello, la panchina e tutti gli accessori che occorrevano, per la commediola che gli avevo scritto e di cui si erano subito innamorati. Per ciò che riguarda i preparativi, a dire il vero, andò a finire che senza l’aiuto del bidello e di qualche genitore, i ragazzi avrebbero costruito e concluso ben poco di utile e che i costumi in gran parte li dovette finire di cucire mia moglie, perché ogni cosa risultò assai meno facile di quanto gli alunni non si fossero immaginati. Ma anche questo fa parte dell’esperienza.

E anch’io stesso feci delle esperienze inconsuete: Di solito, dopo aver portato a termine un racconto o un capitolo di un romanzo, rileggendolo, ne rimango assai deluso, e pensando poi alla fatica sprecata in un lavoro che considero che vada completamente rifatto, mi sento cascare le braccia. Nel caso de «La figlia del signor Pantalone» invece fu tutto il contrario. L’avevo scritta senza fatica e senza alcuna pretesa. Così rimasi parecchio meravigliato nel costatare che, rileggendola e mettendola successivamente in scena, cominciasse addirittura a piacermi.

Ora sarebbe legittimo chiedersi — e non pochi infatti mi hanno rivolto questa domanda sia all’inizio del progetto che dopo la rappresentazione — che senso avesse scrivere e mettere in scena oggi una commedia del genere. Non sarebbe forse più giusto prendere un testo antico, allestirlo e rappresentarlo così com’è? Oppure scrivere un testo moderno rinunciando alle maschere ed evitando così gli inesorabili anacronismi che si vengono a creare nel tentativo di resuscitare un genere di teatro ormai tramontato? Non è un po’ come se per l’orchestrina della scuola ci si mettesse a comporre plagi di sonatine classiche o barocche invece di prendere quelle reperibili e autentiche di Mozart, di Haydn o di Vivaldi? — A questa domanda si potrebbe rispondere in vari modi (ed è assai probabile che io stesso in futuro dia una risposta diversa da quella che sto per dare), ma in questo preciso istante me la sento di rispondere così: No, non è esattamente la stessa cosa. Principalmente perché la Commedia dell’arte non funziona così, non è come un brano di Mozart, Haydn o Vivaldi. Essa non è basata su una tale e simile egemonia del testo o della composizione. Prendere oggi un originale lazzo antico del Cinquecento o del Seicento e recitarlo così com’è — ammesso che si riesca a stabilire che cosa significhi in questo caso «così com’è» —, a mio avviso, darebbe invece origine all’anacronismo vero e proprio, poiché le costanti modifiche, l’adattamento alle circostanze e alle pretese del momento sono parte intrinseca della sua intenzione e dello scopo per cui questo tipo di teatro è nato, e non addobbi o fronzoli aggiunti solamente per rendere più divertente, più gradevole, conveniente o più comprensibile al pubblico una commedia finita e compiuta. L’attualità, la disponibilità e le condizioni fisiche degli attori, le condizioni e le necessità economiche della compagnia di teatro, il pubblico (saranno giovani o vecchi, colti o ignoranti, poveracci o agiati, quelli che assisteranno alla rappresentazione?),  le condizioni e le circostanze in cui si reciterà (sarà una piazzetta tranquilla dove è possibile seguire con concentrazione o un mercato affollato, con rumori di ogni genere e traffico, gente che va e gente che viene?), tutto ciò è il fine, lo spirito, l’anima di un genere di teatro per cui il copione altro non è che un trampolino da cui spicca il salto ed è poi questo salto, il volo che crea il pezzo vero e proprio durante la recita. — Quindi alla presunta fedeltà nei riguardi del testo, si opporrebbe un’infedeltà nei riguardi del suo messaggio e della sua natura. E per quanto debba ammettere che lo stesso ragionamento in parte valga anche per un brano di Mozart, restano comunque due differenze fondamentali: Primo, il brano di Mozart può tuttora essere, se non proprio percepito così come lo si percepiva ai tempi del compositore, almeno gustato, mentre un lazzo del Settecento non farebbe né ridere né divertire nessuno e richiederebbe un’infinità di spiegazioni che senz’altro finirebbero semplicemente per annoiare. Secondo, una composizione musicale contemporanea che imiti Mozart o Haydn, composta con la tecnica e secondo il linguaggio musicale del barocco o del classicismo, non sarebbe affatto più facile da comprendere di quanto non lo siano già i brani originali, mentre «La figlia del signor Pantalone» non ha bisogno di nessuna spiegazione per essere compresa.

Piuttosto che ad un tentativo di resuscitare un genere tramontato vorrei paragonare «La figlia del signor Pantalone» e la sua intenzione a un film in cui Massimo Troisi e Roberto Benigni recitano delle scene collocate nella Firenze del Seicento e indossano sì dei costumi d’epoca (senza eccedere nel tentativo di osservare fedelmente il dettaglio storico), ma parlano un italiano moderno che, per quanto fortemente regionale nell’accento, non è napoletano né fiorentino stretto, almeno non al punto da non essere compreso da chi non è né campano né toscano.

A mio avviso usare le maschere italiane non già nella loro funzione che avevano quando la commedia dell’arte era una realtà vissuta, espressa e percepita, compresa e condivisa dai comici e dal pubblico, bensì nella piuttosto vaga e fumosa, ma cara e affezionatissima immagine collettiva che se ne conserva nella società contemporanea italiana, offre spunti e condizioni per una nuova forma di teatro sperimentale, postmoderno, che non preclude a priori, nei suoi sviluppi ancora da inventare, da osare e da vagliare, neanche la possibilità di far nascere qualcosa che un giorno venga considerata e riconosciuta come espressione drammatica a sé stante. 

Comunque l’importante e la principale motivazione della pubblicazione di «La figlia del signor Pantalone» è che tutti noi che vi lavorammo, nel portare a compimento qualcosa che in partenza non pareva realizzabile, ci divertimmo un mondo: i ragazzi, io e il pubblico, regalandoci un ricordo indelebile.

(La commedia fu data in occasione della festa per l’assegnazione dei diplomi alla chiusura dell’anno scolastico 1988).

Avevo una gran voglia di scriverne altre e di allestirle negli anni successivi assieme ad altri ragazzi di altri corsi. Purtroppo il fervore di quelli dell’88 non si è più ripetuto.

«La figlia del signor Pantalone» è una piccola commedia di maschere adatta ad essere messa in scena e rappresentata da una scuola o da un corso di teatro per ragazzi, forse anche di un corso d’italiano per stranieri. Si tratta di un tentativo di conservare alcuni elementi della ormai tramontata Commedia dell’arte e di inserirli in un contesto più accessibile e comprensibile sia alle attrici e agli attori che al pubblico. L’intenzione è quella di sposare un’antica tradizione i cui elementi, le maschere che hanno per la cultura italiana tuttora un fascino e una certa importanza, con un linguaggio drammatico non decifrabile esclusivamente dagli addetti ai lavori, come lo sarebbero i lazzi e canovacci da recitare a soggetto della Commedia dell’arte vera e propria.

A compagnie di teatro, classi e corsi scolastici interessati all’allestimento o anche semplicemente allo studio della commediola sarà fornito il copione in formato PDF. Per un’eventuale ordinazione lasciare una descrizione del progetto e un recapito elettronico nei commenti o direttamente a: contact@tuccillo.ch

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