Tramonto

Alberigo Tuccillo Letteratura 2 commenti

Dalla raccolta di racconti ‹Bestiario bucolico-urbano›:

«Ahi, ahi» fece inquieto il vecchio Gallo quando al volgere di una torrida giornata d’estate vide avvicinarsi una millecento grigia.

La macchina, che veniva su a tutto gas verso la fattoria per la strada massicciata sollevando un gran polverone, pareva perdere i pezzi per strada, ammaccata e mezzo mangiata dalla ruggine com’era. Scoppiettando dalla marmitta bucata, frenò a pochi passi da lui, di là della rete che recingeva tutto il cortile del pollaio, suo assoluto dominio, territorio che soltanto a lui, Gallo, incombeva difendere e controllare. 

Fermatosi il catorcio, ne scese un uomo sulla trentina, il quale, chiusa che ebbe la portiera, si mise a fare degli strani movimenti, qualcosa fra un tic nervoso e un accenno d’esercizio fisico, forse per sgranchirsi le ossa dopo aver guidato a lungo. Restò poi per degli attimi, che al Gallo parvero lunghissimi, a guardare in direzione del casolare, fischiettando e canticchiando stralci di una canzone imparata male, finché, senza distogliere lo sguardo dalla casa dei padroni, infilò dal finestrino una mano nell’abitacolo della macchina e diede due colpetti di clacson. 

Il Gallo continuava a roteare a scatto la testa per sbirciare alternativamente, ora con un occhio ora con l’altro, le movenze dell’intruso. Fece poi qualche passo per accostarsi ancor più alla rete e ripeté con maggiore angoscia di quanta non avesse già esternato prima, quasi fosse ormai costretto ad abbandonare anche l’ultima speranza di essersi sbagliato: «Ahi, ahi.»

«Perché? Che c’è?» chiese una delle pollastrelle più giovani, dal piumaggio ancora candido e delicato, che aveva improvvisamente smesso di razzolare e si era avvicinata al Gallo: «Che? Che è tutta ‘sta preoccupazione? Chi è quel tizio?»

«Ah», rispose il vecchio con voce sommessa, «tu non te lo ricordi, non puoi ricordarlo, eri troppo piccola quando lo vedemmo l’ultima volta.»

Rammentando quel malaugurato giorno il vecchio Gallo assunse un’aria insolita di smarrimento, quasi di soggezione, qualcosa che mai si era visto in lui, e a un tratto fu percosso da un brivido che gli fece drizzare le penne del collo e della schiena.

«Ma forse è meglio così», soggiunse, «forse è meglio che tu non sappia.» Ancora qualche passo lungo la rete e si sforzò di gonfiare il petto come soleva fare un tempo, nei giorni ormai remoti della sua giovinezza, specie in quelli che seguirono la Grande Conquista, quando nel giro di pochi minuti si era impadronito dell’intero pollaio, galline comprese, umiliando a morte il suo predecessore, spodestandolo e scacciandolo senza che ci fosse stato nemmeno bisogno di arrivare allo scontro vero e proprio. Quella volta lì, a confermare la sua superiorità, gli era bastata la propria presenza, la sua fiera apparizione che palesava tutta la forza di un vero padrone, di un condottiero, un ardimento e una fermezza che incutevano timore a chiunque.

Il Gallo ricordò l’evento con l’orgoglio e la serenità di chi è consapevole di poter frugare nella memoria senza rimpianti, il che gli fece riacquistare un po’ della fiducia in sé che avvertiva di aver perso. Pur tuttavia non gli riuscì più di riguadagnare in modo convincente l’aria selvaggia e gagliarda dei bei tempi, e capì, anzi, che la posa da temerario, impostata alla meno peggio, così come ancora poteva, anziché mascherare la sua apprensione, altro non avrebbe fatto che renderlo definitivamente goffo e ridicolo. Alla sua età era inutile alzare la cresta, conveniva far valere la lunga esperienza, agire con saggezza e lungimiranza.

«Va’, entra nel pollaio», disse pacatamente alla pollastrella, «e non uscirne fintanto che non ti chiamerò io. Anzi, fa’ entrare pure le altre, tutte quelle delle ultime covate; le chiocce, che seguitino a covare — e mi raccomando: non preoccuparle troppo; le vecchie, che restino pure fuori se vogliono, ma che non si allontanino dalla scaletta. Hai capito? Di’ che l’ordine l’ho dato io e che non tollero discussioni.»

«Sì, sì, va bene, come volete voi», rispose la pollastrella riprendendo irragionevolmente a dare qualche fortuita beccata in terra.

Purtroppo, le pollastre avevano quella pessima abitudine: pur sapendo fin troppo bene quanto al vecchio Gallo desse fastidio lo stolto vizio di beccare ininterrottamente — così senza motivo e senza riflettere, spesso senza nemmeno accorgersene, anche nei momenti meno convenienti — non c’era verso che si contenessero, specie quelle giovani. Era un moto coatto, era più forte di loro: quando si eccitavano, immancabilmente si mettevano a pizzicare il terreno.

«Mbeh?» alzò la voce il vecchio, «mo che facciamo? ci mettiamo a beccare ci mettiamo?» e girando la testa in modo da fissare con un occhio, assai corrucciato, l’uomo della macchina che stava esaminando la propria pettinatura allo specchietto retrovisore, e con l’altro, severo, la sciocca pollastra, sbottò: «Ma ti pare questo il momento?»

«Vado, vado, non arrabbiatevi», farfugliò la pollanca, e giù un’altra beccata, «me ne sto andando», e giù un’altra beccata, «un attimo solo», e giù un’altra beccata. C’era poco da fare: il vedere il Gallo così agitato, le aveva messo addosso una tale fifa che, malgrado la sua tenera età, essa avvertì all’improvviso un tanto ardente quanto ingannevole bisogno di fare l’uovo, come se conoscesse per esperienza propria il sollievo che ciò le avrebbe potuto procurare. Arrendendosi però all’inutilità dello sforzo, smise di spremersi e schiamazzò: «Ahó, ma quel tipo? Ehi, dico, ma quel tipo… quasi si direbbe che vi faccia paura.»

«Sfido! Se non mette paura quello…» scappò di becco al vecchio, «quel tipo è una canaglia, un essere spietato, un farabutto come per nostra fortuna se ne vedono pochi in giro. Ogni volta che si presenta qui, quella lurida carogna, ci lasciano le penne un paio delle nostre. E ora va’, fila, che già mi hai fatto parlare fin troppo!»

Certo però, che se l’intenzione dell’oscura spiegazione era quella di indurre la giovane all’ubbidienza, l’effetto raggiunto fu piuttosto il contrario. Senz’altro conveniva cercar di mitigarne e non di accrescerne la tema, ma ormai la frittata era fatta, e la pollanca, in preda al panico, stava andando fuori di cervello: «Le penne, oddio, oddio le penne!» Tre passi di corsa in là e un’altra beccata, tre passi di corsa in qua e un’altra beccata: «Cocò… cocorro, oddio, oddio. Le penne ci lasciano? Le nostre? Le penne? Ma cocò… cocosa mi dite? Cocò… cocoosa? Ahi, ahi, le penne?»

«Ahé, e mo si muove questa», pensò il Gallo. Con le spiegazioni ormai non si otteneva un bel niente, lì ci voleva un colpo di rostro sulla schiena; era l’unica.

«Cococoo! Cococooome siete cacattivoo, però!» schizzò via la giovane stringendo le ali dietro le spalle dal dolore.

Finalmente però l’aveva capita. Ora se la dava a gambe. Ogni tanto prendeva sì la direzione sbagliata e le toccava correggere la rotta, ma per correre correva, eccome!

E vista quella scena, non ci volle molto perché tutte le compagne si convincessero a seguirla e a salire pure loro la scaletta, una appresso all’altra, per andare ad appollaiarsi sul posatoio senza esigere spiegazioni. Perfino le vecchie, che è cosa assai rara non sentirle brontolare, entrarono zitte, e zitte rimasero.

Quello della millecento seguitava a guardarsi allo specchietto, arando col pettine vischiose ciocche imbrillantinate. Ora cantava più forte: «…mu-uta d’acce…nto larallallà la-la

Intanto la contadina era uscita dal portone. Aveva le mani bagnate e, nell’attraversare il piazzale per raggiungere il brutto ceffo, se le stava asciugando col grembiule. L’uomo l’attendeva con un piede poggiato sulla ruota anteriore della macchina, sterzata tutto a sinistra.

Si salutarono; lui, impetuoso, fece addirittura per abbracciarla, lei invece si tirò indietro impedendoglielo, pur dispensando sorrisini ambigui, enigmatici, appena abbozzati, forse anche sinceri, calorosi, chissà. Ad ogni modo ancora non era chiaro se ella provasse piacere o disagio nel vederlo.

Dopo essersi scambiati le solite domande e le abituali risposte: — allora? che si dice? mah, nulla di particolare; si tira avanti, il solito trantran, e tu? eccetera, eccetera —, presero a discutere sottovoce.

Ridacchiava, il mascalzone, ridacchiava e parlava come se la sapesse lunga. Ma lei non cedeva, scuoteva la testa, ogni tanto scandiva un no secco che emergeva dal loro mormorio, poi riprendevano l’indistinto brontolare. Che cosa avessero da dirsi, di che cosa stessero parlottando, da lì dietro alla rete non lo si capiva. Pareva che ci fosse qualcosa su cui non riuscissero a mettersi d’accordo.

Nel cuore del vecchio Gallo si accese un barlume di speranza. Che si stesse discutendo del pollaio? Che la contadina, a quel fetente, gli stesse dicendo: «Ah guarda, non metterti in testa di entrare là dentro perché ti faccio passare un guaio se soltanto ti avvicini al cancello!»? — Magari questa volta le sue galline l’avrebbero scampata. Magari.

Il solleone stava allentando la presa. Un filo d’aria, un venticello quasi impercettibile si era levato e prometteva che da lì a poco si sarebbe tornati a respirare.

Il Gallo diede due o tre beccate a terra.

Come? Beccate? Pure lui adesso? — Pure lui, sì.

Ma le beccate sue erano tutt’altra cosa, non avevano nulla a che vedere con quelle insulse delle pollastre: le beccate sue erano meditate, studiate, intenzionali, avevano uno scopo ben preciso. Mica si poteva rischiare che quei due al di là della recinzione se ne accorgessero che lui li stava ascoltando. Nonostante la speranza che cominciava a spandersi nel suo cuore, non era certo il tipo che si abbandona a ingenue illusioni, lui. Degli uomini non c’era mai da fidarsi, e il fatto che per il momento la contadina non cedesse alle proposte del mascalzone, di qualunque genere esse fossero, non significava affatto che si potesse stare tranquilli.

Infatti, ecco che i due s’incamminarono lungo il confine del pollaio, passeggiavano lentamente, conversando in maniera assai ambigua; la donna avanzava rasente alla rete e l’uomo, che le stava dietro, tentava continuamente di metterle un braccio sulle spalle. Lei gli diceva: «Ma su piantala!» e si divincolava, gli dava un gomito nello stomaco — lui rispondeva: «Sì, dài, sì così, fa’ la cattiva dài, ché cattive mi piacciono le femmine, cattive e renitenti!» poi sghignazzavano tutt’e due. A vederli in quel modo non si sarebbe detto che fossero capaci di arrivare al punto che lui, Gallo, ahimè sapeva.

«Paiono nientemeno gallo e gallina!» disse fra sé il vecchio, «se non avessi visto coi miei occhi quello che è successo le altre volte, non ci crederei.»

La prima di quelle volte l’uomo era entrato dal cancello — ricordò con un tremito il Gallo — e dopo averlo chiuso dietro di sé, era rimasto lì fermo per un bel po’, facendo correre lo sguardo attento per tutto il cortile. Non sembrava neanche che li odiasse i polli, anzi, pareva addirittura apprezzarne la bellezza. Più le galline erano avvenenti, graziose, più egli ne stava a contemplare il fisico, le movenze, la leggiadria.

«Gusto raffinato, occhio da intenditore», aveva ammesso il Gallo ancora ignaro, «gli piacciono proprio quelle che piacciono a me: né troppo giovani né troppo vecchie, né quelle troppo formose, obese, ma nemmeno quelle troppo smilze, asciutte.» Poco ci mancava che da un esilarante riconoscimento di un pollo nei riguardi di un umano e dell’inclinazione che costui manifestava per il fascino di una femminilità per lui aliena, ne scaturisse una connivente simpatia.

Non tardarono però, tali chimeriche e ridicole meditazioni su una sorta di solidarietà virile che tendevano perfino a trascendere i confini della specie, ad essere lacerate proprio da una manifestazione di virilità esasperata e dalla più ripugnante perversione di cui essa è capace: l’immondo appetito di procurare dolore e sofferenza. Il volto dell’uomo, trasfigurato all’improvviso da cupidigia morbosa, sprigionò in un baleno un potere paralizzante, un terrore che costringe chiunque vi assista all’impotenza totale. Nessuna delle galline si mosse.

Fu nella brevità di pochi secondi, dieci al massimo, che il sanguinario consumò il suo delitto: due passi decisi, avanzati senza fretta né titubanza e il pugno del nefando serrarsi rapidamente intorno al collo di una poveretta immobilizzata dallo sgomento, fu tutt’uno. In seguito, l’atto orripilante si ripeté altre due volte, e altre due volte un breve lamento cavernoso, soffocato, quasi impercettibile, segnò una morte data con mostruosa perizia. Quindi ecco il pollicida allontanarsi placido e contento, senza alcun segno di rimorso, quasi avesse colto tre frutti maturi da una pianta e non ucciso tre pollanche nel fiore della loro giovinezza.

Chiuse il cancello lasciando dietro di sé l’intero pollaio in balia d’un incubo dal quale mai più si sarebbero svegliati coloro che avevano assistito allo strazio. Soltanto la morte dei testimoni oculari, soltanto il tempo — che li avrebbe man mano sostituiti con altre pollastre, altre chiocce e, un giorno non tanto lontano, anche con un altro gallo — sarebbe riuscito a cancellarne il luttuoso ricordo.

Non erano trascorsi che pochi mesi dalla seconda e non meno penosa apparizione della millecento grigia, dalla replica di quell’irruzione sanguinaria, scatenatasi contro il pollaio a rinnovarne inutilmente la già indelebile memoria. E ancora si era tornati a quel punto.

Di quale colpa si era macchiato il pollaio per meritare un simile anatema?

Ora però, la contadina e il provetto assassino, fatto il giro attorno al cortile del pollaio, invece di entrarvi dal cancello, come il Gallo aveva temuto, si fermarono davanti al portone della rimessa adiacente.

La contadina aveva un gran daffare nel tenere a bada le mani avide dell’uomo che le svolazzavano davanti all’abbottonatura della camicetta celeste come passeri che si contendono le briciole d’una merenda, e mentre con mosse convulse ella si sottraeva ai contatti lussuriosi, emetteva squittii mal repressi e lanciava furtive occhiate timorose verso l’abitazione, evidentemente per paura di essere vista. Saltellava con una mano di guardia davanti al seno e l’altra allungata verso il basso a prevenire attacchi da sotto la gonna, che per la verità finora non c’erano stati. Finché, trovandosi con le spalle al muro e non potendo più indietreggiare, dimenava il capo a dritta e a manca per schivare i baci che lui, in preda alla sua crescente foga e con disordinata insistenza, cercava di affibbiarle sul collo, sulle guance, sulla bocca. Ma come è vero che troppo spesso gli slanci di lui andavano a segno, tanto da destare il sospetto che lei in qualche modo li favorisse, è altrettanto vero che le percosse e le ginocchiate che la donna gli vibrava, erano tutt’altro che carezze.

Da tale altalena fra il sì e il no, fra il rifiuto e la complicità, da quell’amalgama di basta che hai oltrepassato il limitema sì dài che ci sto, ne scaturiva una stranissima danza, o lotta che dir si voglia, che avrebbe lasciato incerto, disorientato, sbalordito chiunque vi avesse assistito; tant’è che il Gallo, come se si fosse congelato di botto proprio mentre faceva il passo, era rimasto per alcuni minuti attonito e immobile a osservare la scena, conservando miracolosamente l’equilibrio su una zampa sola.

Non si svegliò da quella specie di ipnosi e non portò a termine il passo iniziato minuti addietro, che quando la contadina, rossa dalla concitazione, ebbe aperto, improvvisamente e con grande fretta, la porta della rimessa, sparendovi insieme al suo corteggiatore e richiudendola dietro di sé in un batter d’occhio.

Ecco che il Gallo, sorpreso per la rapidità con cui era sopraggiunta la sera, girò la testa in direzione del sole ormai rabbonito e ne notò la bellezza; lo si poteva guardare dritto in faccia, gonfio e rosso com’era, senza che abbagliasse.

Il solleone aveva perso tutta la sua ferocia e pur tuttavia non pareva soffrirne. All’imminente tramonto, l’astro fulgente non sembrava andare incontro come a una terribile condanna, anzi: fra non molto esso si sarebbe coricato là dietro alle colline di ponente, stanco, beato e pago di quanto aveva compiuto durante il suo cammino. Era contento di come erano andate le cose e non avrebbe desiderato che il suo corso fosse né più lungo né più breve di quello che era stato.

Così il Gallo, che si rendeva conto di non essere più quello d’un tempo, cercò anche lui conforto nel rimembrare eventi e imprese di tempi passati.

Non gli riuscì di trarne alcun sollievo.

Avevano un bel dire quelli che paragonavano la vita di un gallo al cammino del sole. Era assai più facile per il sole tramontare, spegnersi lentamente, cullarsi nel ricordo di un mattino riuscito, d’un mezzogiorno realizzato alla grande, di un pomeriggio in cui aveva dominato da indiscusso signore, di una sera eseguita con eccelsa maestria, e nel contempo sprofondare con serenità nelle tenebre della notte, di quanto non lo fosse per un gallo, cosciente di lasciare il pollaio in balia del fato, consapevole che lì dietro la porta della rimessa il pericolo era sempre in agguato, mentre a lui non restava che attendere impotente l’ulteriore raccapricciante sacrificio che di lì a poco si sarebbe consumato. Quant’era amaro sapersi ormai lento di rostro, sentirsi incapace di sferzare i colpi d’artiglio rapidi e micidiali con cui un tempo avrebbe affrontato un falco.

No, non era paura di soccombere — o meglio: la paura di soccombere non era legata alla propria sorte, ma a quella del pollaio.

Il sole, il sole! Ah! Il sole non lasciava dietro di sé un giorno orfano e indifeso; il sole, quando tramontava, il suo giorno se lo portava appresso, ma un gallo, dopo il proprio declino… — non osava pensarci.

Come si sarebbe comportato lui, Gallo, tuttora padrone, anche se indegno, di quel pollaio, se al delinquente della millecento, fatto ciò che dentro la rimessa stava facendo, fosse tornata la voglia di strangolare due o tre pollanche? Si sarebbe ancora disperatamente travagliato, inerme, inetto? O avrebbe questa volta, per non rodersi la coscienza per il resto dei suoi giorni, affrontato il nemico, trovando la morte pur senza riuscire a salvare coloro che erano affidate alla sua protezione? Era forse giunto il momento non solo di accettare la propria sostituzione, ma di invocarla addirittura? Per amor del suo pollaio non poteva augurasi di meglio: lì ci voleva un nuovo gallo, uno giovane, impavido, forte.

Ecco perché ai primordi del suo governo gli era riuscito di scacciare il predecessore senza dover mettere in atto quanto avrebbe potuto! Senz’altro il vegliardo lo aveva atteso, e nel vederlo si sarà detto: «Finalmente è arrivato! Era ora! — Ma che bisogno c’è di fare tutto questo schiamazzo? Questo galletto pretende di scacciarmi con la prepotenza. Roba da chiodi: si presenta qui con questa tracotanza e pensare che stavo per dargli il benvenuto, stavo per dirgli che di me non c’è più bisogno. — Mah! — È borioso il giovincello, però di forza ne ha da vendere — speriamo che abbia anche un pizzico di buon senso.»

A saperle queste cose. Quanto più dignitoso sarebbe stato, invece di minacciarlo, andargli vicino e dirgli: «Va’ tranquillo, farò del mio meglio.» E così barcollando fra l’angoscia e i mesti rimpianti, fece, senza rendersene conto, tutto il giro del cortile.

Ad un tratto udì riaprirsi il portone della rimessa, e giratosi di scatto, vide uscirne prima l’uomo, poi la contadina che a mo’ di scherzo gli dava del manigoldo e insieme rideva sottovoce, mentre senza fretta si riordinava le vesti.

Ce ne avevano messo di tempo là dentro! Si capiva che erano estenuati, torpidi, sgravati della foga che li aveva spinti all’imprudenza, forzati a rischiare di essere beccati sul fatto da chiunque si fosse affacciato a una finestra della casa, costretti a pomiciare allo scoperto, incapaci di attendere di aver guadagnato il nascondiglio sicuro.

Gli ultimi bottoni della camicetta celeste si stavano insinuando nelle rispettive asole con la flemmatica determinazione di chiocciole che si ritraggono nel proprio guscio. Il pettine del ribaldo fendeva stanco sudici grumi di brillantina cagliata, rimuovendone i fili di fieno che vi erano rimasti appiccicati. Tutto era placido e rilassato, immerso nella pacifica sonnolenza di un declino atteso con ansia, e il bagno di sangue nel cielo del crepuscolo dava modo di sperare che quello temuto, quello del pollaio, ormai non si sarebbe più perpetrato. Le galline senz’altro stavano già dormendo.

L’aveva scampata.

Ma cos’era quello?! Cos’era quella cesta di vimini che dondolava appesa al braccio flesso dell’uomo? E cos’era quella roba orripilante che vi giaceva dentro? — Santo cielo! Orrore! Erano cadaveri! Cadaveri di bestie assassinate, decapitate, spennate. Sangue raggrumato sui labbri sfilacciati del collo mozzo, ancora rosso, umido, forse ancora caldo di vita.

Il vecchio Gallo ebbe una fitta al cuore e per poco non stramazzò a terra stecchito. Allungò il collo, quasi se lo sentisse tirato dal capestro, spalancò la gola come per lacerare il silenzio col suo potente canto, ma non ne sbottò che un muto fiotto di rabbia e di dolore.

Vigliacchi delinquenti! Gliel’avevano fatta davanti al becco e lui non se n’era accorto, s’era fatto beffare da quella loro messa in scena davanti alla rimessa, da quella commedia scellerata: toccami, lascia, no, sì, smettila che ci vedono!— All’inferno! E lui? rincoglionito a tal punto che ci era cascato come un galletto coi pezzi di guscio attaccati al culo!

La testa gli scattò di qua di là a fissare con un occhio poi con l’altro il pollaio che giaceva silente come stregato, a cercare di capire come diavolo avevano fatto quei mascalzoni a fare il giro senza essere visti, e non riuscendo a rendersene ragione, prese a beccare in terra, a sbocconcellare il terreno come la più stupida delle pollastre.

«Ahi, ahi», tornò a lamentarsi, e il tono querulo, difficile immaginare che uscisse da quel becco fiero, avrebbe commosso una faina: «Povere creature mie, non ho saputo difendervi, non ho saputo fare il mio dovere, e oltre al dolore di vedervi così conciate, sprofondo dalla vergogna. Sono finito, ahimè, sconfitto! Fossi caduto sul campo, nel tentativo di salvarvi, non sarei qui a piangere infangato dal disonore. Dicevano gli avi: dolce e decoroso morire per il pollaio; ma io… — me tapino! Che l’oblio di me e della mia pusillanimità redima i posteri da quest’onta.»

E deplorando fra sé, seguiva i sicari che lungo la rete andavano a raggiungere la millecento.

Il Gallo incedeva a petto gonfio, col passo imperioso, solenne, quello delle grandi occasioni: allungava energicamente la zampa sinistra, la poggiava e vi si rizzava tenendo alto il becco e strette le ali, così si arrestava di botto con la zampa destra sospesa, poi tutto si ripeteva all’incontrario. E a scanso di equivoci: quell’incedere maestoso non era segno di fierezza, che poco sarebbe convenuta alla meschina figura di sé che aveva dato, bensì di lutto.

Le pollastre morte però — ovvero le misere spoglie di chi aveva subìto la disgrazia di cadere nelle mani del carnefice, quelle tristi carcasse lì nel paniere — più il Gallo le guardava, meno gli sembravano polli. Quella pelle rosea, venata di vermiglio, il corpo lungo e stretto, gli arti da quadrupede. Sinceramente un cadavere spennato di gallinaceo non ricordava di averlo mai visto, ma bastava una briciola d’immaginazione: anche a figurarsi quei corpi snelli e nerboruti cosparsi di piume e di penne, mai si sarebbe riusciti a generare nella fantasia l’effigie di una gallina né di qualcosa che ne avesse una pur vaga somiglianza.

No, non si sbagliava: quelli non erano polli — e a pensarci bene non c’era che un’unica spiegazione: erano di quelle bestie miserabili che vegetavano romite nei loro box angusti e bui dietro alla rimessa: conigli! Conigli squarciati e spellati.

Ecco com’erano andate le cose: la barbara eccitazione che aveva addosso il sanguinario, il conciliabolo bisbigliato con la contadina, la brutale macchinazione di lui, la titubanza di lei a seguire i suoi crudeli disegni, la concitazione di tutt’e due durante il cammino per raggiungere la rimessa, tutto il tempo che ci avevano messo prima di entrarvi per non parlare del tempo che poi c’erano rimasti dentro, il fatto che egli non li avesse visti uscire da lì per penetrare nel pollaio.

Il suo discorso era limpido, non faceva una grinza: stavolta, dunque, era toccata ai conigli, la prossima chi ci avrebbe rimesso la pellaccia? — I porci? qualche pecora? il cane? il contadino?

Il vecchio Gallo ebbe un brivido dallo sgomento. Non sapeva più cosa provare. Era affranto e sollevato nel contempo, si sentiva salvo e sconfitto, quietato e terrorizzato. Come si faceva a tirare il fiato, soltanto perché a crepare così sciaguratamente non erano state le sue pollanche, ma altre bestie, non meno innocenti? E il fatto che lui non aveva trovato né il modo né il coraggio di opporre resistenza, era ormai una certezza. Nessuna retorica sarebbe stata in grado di fare l’apologia della sua incapacità e della sua viltà.

Non che con i conigli se l’intendesse, sia ben chiaro. A dir la verità, fra tutte le bestie della fattoria, quelle che egli maggiormente detestava, forse erano proprio quegli insulsi roditori: bestie odiose, antipatiche, animali che non ti guardano mai negli occhi, anzi, non guardano né a destra né a sinistra. Se ne stanno col capo perennemente chino, ritirato fra le spalle alzate, sempre assorti a fissare il vuoto o chissà che cosa. E non è certo per umiltà che assumono tale atteggiamento, quanto piuttosto per innata diffidenza nei riguardi di chiunque. Sospettosi e ostili, li vedi sempre col naso arricciato, quasi provassero repulsione di qualsiasi cosa del creato. La bocca in continuo movimento, ma senza che mai si udisse un verso, come se stessero continuamente a tirar bestemmie sottovoce, a maledire il mondo intero, a smoccolare mute imprecazioni contro il fatto stesso di essere al mondo, a rodersi l’animo per un implacabile rancore universale e congenito.

Dio sa come li odiava, quegli esseri infelici! E se di codardi ce n’erano fra gli animali della fattoria, erano proprio loro, proprio i conigli, a cui nessun’altra bestia avrebbe mai conteso il vergognoso primato di esseri imbelli per antonomasia.

Il sole era tramontato e della millecento che portava con sé i cadaveri dei roditori, non si vedevano ormai che i fanali. Per un po’ se ne udì lo scoppiettare, poi anch’esso svanì.

Mai a memoria di volatile s’era sentito raccontare che un gallo avesse razzolato per il cortile fino a sera tanto inoltrata. Era ora, doveva rientrare! Aveva bisogno di dormire, perché fintanto che le forze gli avrebbero permesso di alzarsi allo spuntare dei primi raggi di sole e di cantare la sveglia, lui non avrebbe mancato di adempiere il dovere.

Attraversò il cortile di corsa, o almeno con passo molto simile alla corsa. Ma ai piedi della scaletta indugiò. Si voltò a far scorrere lo sguardo per il suo pollaio, rimase un attimo, come inebriato, a guardare fisso quel triste portone della rimessa da cui erano usciti sghignazzando la contadina e l’uomo con i cadaveri dei conigli nella cesta.

No, i conigli non li aveva mai sentiti amici. Questo no; ma nel vedere le povere bestie conciate in quella maniera, aveva sentito un nodo alla gola per la gran pena che gli avevano fatto.

Commenti 2

  1. In questa storia, che a prima vista sembra trattare di animali, si manifestano man mano abissi del carattere umano. Il gallo è, da un lato, spettatore del „teatro umano“, dall’altro fa meditazioni sulla sua vita, tira la somma della sua esistenza. Si sente maturato, le esperienze lo hanno reso diffidente. Non sente la soddisfazione che sente il sole al tramonto: I ricordi non lo confortano e lo addolora abbandonare la prole che gli è stata affidata al suo destino.
    Il tipo della millecento, protagonista del teatro umano, è una persona egocentrica che si prende quello che vuole. Più resistenza incontra, più cresce il suo appetito sessuale che è connotato con la violenza — più attraente è la sua preda più è stuzzicata la sua bramosia, il suo sadismo.
    La donna, tra il „vorrei e non vorrei“ di Zerlina, gioca l’eterna commedia della pudicizia.
    È una bella storia! Molto interessante!

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